Atlante occidentale

Daniele Del Giudice

Ciò che pensava come a una posizione era in realtà l'adeguamento a tutto quanto.

Pensava alle città in cui era vissuto, alle città che aveva immaginato e raccontato; a come quelle città avessero avuto ciascuna un proprio carattere che si era sforzato di sentire, a come invece adesso fossero più o meno tutte uguali e solo il carattere delle persone gli sembrasse mutevole, e importante.

Ho imparato a usare gli oggetti, a portare una barca, a guidare una macchina, a pilotare un aeroplano; per ogni cosa c'erano manuali, libri in apparenza destinati alla mano più che all'anima, ma soltanto in apparenza, perché se posso dubitare dell'intenzione dei romanzi che ho scritto so per certo che il fine di un manuale è uno solo, accrescere la felicità del genere umano. Nei manuali c'erano i nomi della natura, i nomi delle cose, la descrizione del loro funzionamento, ciò che bisognava fare o come si doveva stare perché quella determinata cosa funzionasse. Ogni manuale era per me un libro di galateo applicato, un romanzo di formazione.

Le cose stanno cambiando, sono cambiate. Non nel senso generico che si dà a questa frase. Le cose stanno scomparendo. Quelle che arrivano, o arriveranno, ho paura che non potrò piú sentirle. Ho paura che potrò solo usarle.

Il succedersi degli oggetti e dei modelli era un buon modo di sentire il tempo, e di ricordarlo.

Forse ci sono delle quantità all'inizio che poi uno esaurisce via via: che so, una certa quantità di sonno, e quando l'hai dormita tutta poi basta. O una quantità di chilometri che puoi farti a piedi in tutta la tua vita. O una quantità di frutti di mare. O una quantità di attesa: anche di queste ce n'é sempre di meno, finché non ce n'è piú.

Se parlava o sorrideva Brahe poteva vedere lo zigomo perfettamente rotondo, il tratto delle palpebre nettissime sopra e sotto, le linee delle labbra e le curve dell'orecchio attorno al quale giravano i capelli corti, e pensó che se tutto questo era così bello da quella distanza sarebbe stato insostenibile guardarlo ancora più da vicino, come si guarda quando si è cosí vicini che bisogna chiudere un occhio per mettere a fuoco.

Di tutte le cose che col passare degli anni si irrigidiscono, e bisogna tenere in esercizio, Epstein aveva curato la precisione. Non la pignoleria, che è un restringimento del campo visivo, né la perfezione che ne è l'allargamento illimitato, ma la precisione, come si allena un muscolo. Forse perché sentiva che la precisione conserva lo stupore e che invecchiare significa non tanto perdere la curiosità, quanto perdere la capacità di incanto e di stupore ragionevole. La sua precisione non era esclusiva, tollerava negli altri anche l'esagerazione e l'imprecisione, purché servissero ad afferrare qualcosa; solo, la precisione era per lui il modo più naturale di avvicinarsi allo stupore, e di preservarlo.

Poi aveva capito che le cose più importanti avvengono nella distrazione, non nella concentrazione, e aveva imparato la necessità di distrarsi.

Ci sono delle persone che conservano qualcosa di animale: il taglio degli occhi, il modo di camminare, come si voltano, o sorridono, o piegano la testa. Forse perché seguono dei percorsi tutti loro, paralleli a quelli degli altri.

Fu un bacio molto lungo e molto dolce, come sono i baci che uno si è aspettato per tutto un pomeriggio, e già non ci spera più.

A lui era sembrato che vedere significasse solo spostare un po' piú in là la soglia del non visibile, ricostruirla con lo stesso battito di ciglia con cui la si abbatteva, gli era sembrato che una macchina cosí grande, e una geometria cosí raffinata, e una matematica tanto complessa che il vero problema era come rinormalizzare continuamente l'infinito.