Oblomov

Ivan Goncarov

Il via Gorochavaja, in una di quelle grandi case la cui popolazione sarebbe sufficiente per un intero capoluogo di distretto, era a letto, un mattino, nel suo appartamento, Il’ja Il’ìč Oblomov. Costui era un uomo sui trentadue-trentatré anni, di media statura, di piacevole aspetto, con degli occhi grigio scuri e l’assenza di qualsivoglia idea precisa, di qualsivoglia capacità di concentrazione nei tratti del viso. Il pensiero vagava come un libero uccello sopra quel viso, svolazzava sugli occhi, si posava sulle labbra semiaperte, si nascondeva nelle pieghe della fronte poi spariva del tutto, e allora il viso brillava di un uguale candore di spensieratezza. Dal viso, la spensieratezza si trasferiva agli atteggiamenti del corpo, e perfino alle pieghe della vestaglia. [...] Il colorito del viso di Il’ja Il’ìč non era né rossastro, né olivastro, né si poteva dire pallido, ma indifferente, oppure così sembrava, forse per via del fatto che Oblomov era floscio e non per l'età: per mancanza di moto o per mancanza di aria, o, forse, dell'uno e dell'altra. In generale, il suo corpo, a giudicar dall'opaco, troppo bianco colore del collo, dalle piccole mani paffute, dalle morbide spalle, sembrava troppo molle, per un uomo.

Stare sdraiato, per Il'ja Il'ič non era né una necessità, come per un malato o per una persona che voglia dormire, né un caso, come per chi sia stanco, né un piacere, come per un fannullone: era la sua condizione normale.

Si smarriva in una congestione di piccole preoccupazioni.

"In dieci posti in un giorno: infelice!" pensò Oblomov. "E questa sarebbe vita?" scosse violentemente le spalle. "Ma dov'è l'uomo? In cosa si è frantumato e sfasciato? Certo, non è male fare un salto a teatro e innamorarsi di una qualche Lidija... è carina! In campagna, raccogliere i fiori, passeggiare, bene; ma dieci posti in un giorno: infelice!" concluse voltandosi sulla schiena e rallegrandosi di non avere pensieri e desideri così vacui, di non vagare ma di star coricato lì dove stava, conservando la sua dignità di uomo e la sua pace.

Si disponeva però sempre, si preparava sempre a cominciare a vivere, tracciava sempre, nella mente, il disegno del proprio futuro; ma a ogni anno che gli sfrecciava sopra la testa, doveva cambiare e cancellare qualcosa in questo disegno.

Quasi nessuno riusciva a tirarlo fuori di casa, ed egli, ogni giorno più fortemente e tenacemente, si aggrappava al suo appartamento.

"Quand'è che si vive?" si chiedeva ancora.

Ma a cosa servono, il grandioso e il selvaggio? Il mare, per esempio? Se ne può fare a meno. Fa venire solo malinconia: a guardarlo vien voglia di piangere.

Sai Andrej, che nella mia vita non è mai scoppiato nessun incendio né salvifico né distruttivo? La mia vita non è stata come un mattino, che si anima, lentamente, di colori e di fuochi, che si trasforma poi in giorno, come succede agli altri, e brucia forte, e tutto ribolle e ruota in un chiaro mezzogiorno e poi sempre più piano, sempre più pallido, e tutto, naturalmente e gradualmente, si spegne nella sera. No, la mia vita comincia con lo spegnimento. È strano, ma è così. Dal primo momento in cui ho avuto coscienza di me stesso, sentivo che già mi stavo spegnendo. Ho cominciato a spegnermi dopo, quando leggevo nei libri delle verità delle quali non sapevo cosa fare, nella vita, ho continuato a spegnermi con gli amici, quando ascoltavo giudizi, pettegolezzi, scimmiottature, chiacchiere fredde e cattive, vacuità, guardando all’amicizia sorretta da riunioni senza scopo, senza simpatia; mi sono spento e ho sperperato le mie forze con Mina, alla quale ho dato più della metà delle mie entrate, e mi immaginavo di amarla; mi sono spento nelle tristi e pigre passeggiate sul Nevskij prospekt, tra pellicce di procione e baveri di castoro, nelle serate, nei ricevimenti, dove mi accoglievano cordialmente, ero un partito passabile; mi sono spento e ho sprecato la mia vita e la mia intelligenza per delle bazzecole, passando dalla città alla dacia, dalla dacia a via Gorochovaja, prendendo la primavera per l’arrivo delle ostriche e delle aragoste, l’autunno e l’inverno per i giorni di ricevimento, l’estate per le passeggiate, la vita per una pigra e tranquilla sonnolenza, come gli altri… Anche l’amor proprio, in cosa l’ho impiegato? Nell’ordinare abiti a un sarto celebre? Per essere ricevuto in una casa celebre? Perché il principe P* mi desse la mano? Eppure l’amor proprio è il sale della vita. E dov’è sparito? O io non ho capito questa vita, o lei non serve a niente, e sarebbe stato meglio che io non sapessi niente, non vedessi niente, che nessuno mi facesse veder niente. Tu apparivi e scomparivi, come una cometa, brillante, rapida, e io dimenticavo tutte queste cose e mi spegnevo.

Da quel momento, lo sguardo insistente di Ol'ga non gli uscì più dalla testa. Invano si stendeva per il lungo sulla schiena, invano assumeva le posizioni più indolenti e tranquille... non riusciva a dormire, e fosse stato solo quello. La vestaglia gli sembrò ripugnante, Zachar stupido e insopportabile, e la polvere e le ragnatele intollerabili.

L'essere umano è ben strano. Più aumentava la sua felicità, più Ol'ga si faceva pensierosa e addirittura... timorosa. Si era messa a osservarsi con severità, e aveva notato che era turbata dalla tranquillità di questa vita, dal suo arrestarsi nei momenti di felicità. Aveva scosso violentemente dal proprio animo quella pensosità e aveva affrettato i suoi passi nella vita, aveva cercato febbrilmente il chiasso, il movimento, le occupazioni, aveva chiesto al marito di portarla in città, aveva provato ad osservare il mondo, la società, ma non era durata a lungo. La fretta del mondo l'aveva sfiorata appena, e era tornata nel suo angolino a scrollarsi di dosso una sensazione penosa, alla quale non era abituata, e di nuovo aveva ripreso le occupazioni minute della vita domestica. [...] "Ma che cos'è?" pensava con orrore. "Com'è possibile che ci sia bisogno e si possa desiderare ancora qualcosa? Dove devo andare? Da nessuna parte! Non c'è nemmeno una strada... Davvero non c'è? Davvero ho descritto il cerchio della mia vita? Davvero è tutto qui... tutto?..." diceva la sua anima, e non diceva tutto. [...] "Che cos'è?" si chiedeva disperata quando d'un tratto arrivavano la noia, l'indifferenza a tutto, in una meravigliosa serata che induceva alla contemplazione. [...] "Delle volte ho come paura," continuò lei, "che tutto questo cambi, finisca... non lo so neanch'io. O soffro per un pensiero stupido: cosa succederà ancora?... Questa felicità... per tutta la vita..." diceva lei a voce sempre più bassa, vergognandosi di queste domande, "tutte queste gioie, questi dolori, la natura," sussurrava, "tutto mi spinge da qualche parte; non sono contenta di niente..." "Ah! Ma è il prezzo del fuoco di Prometeo! Invece di sopportarla, dovresti amare questa tristezza e rispettare dubbi e domande: sono l'abbondanza, il lusso della vita, e si presentano sulle vette della felicità, quando non ci sono desideri volgari